a cura di Francesco Fuggetta, Giornalista – Osservatorio Malattie Rare
Il sistema del mondo accademico spinge i ricercatori a pubblicare sempre di più, a tutti i costi. E con l’avvento dell’intelligenza artificiale sarà sempre peggio
Il premio Nobel per la Fisica Wolfgang Pauli un giorno rimproverò un collega dicendogli: “Non mi importa se lei pensa lentamente, ma ho da ridire quando pubblica più rapidamente di quanto pensa”. Negli ambienti accademici, questa prassi competitiva e selettiva secondo la quale chi pubblica di più ottiene più finanziamenti, ha un nome: “publish or perish”, pubblica o muori. Per un ricercatore, infatti, la produttività e l’impatto scientifico sono ciò che per un militare è rappresentato dal grado e dalle decorazioni sul medagliere, ma negli ultimi anni questo sistema – misurato da indicatori come l’impact factor o l’H-index – sta andando fuori controllo. La pressione esercitata sugli scienziati affinché producano un gran numero di articoli ha come conseguenza un calo della qualità e un incremento delle frodi in campo editoriale. Lo dimostra una ricerca pubblicata nel maggio 2023 dal neuropsicologo Bernhard Sabel dell’Università Otto von Guericke di Magdeburgo. Sabel e i suoi colleghi hanno esaminato circa 5.000 articoli, e il risultato è stato sconvolgente: fino al 34% degli articoli di neuroscienze pubblicati nel 2020 sono stati probabilmente inventati o plagiati, ma anche nel campo più generico della medicina la percentuale resta altissima, il 24%. “È come se qualcuno ti dicesse che il 30% di ciò che mangi è tossico”, ha commentato Sabel sulla rivista Science. Ma come è stato possibile individuare i contenuti fraudolenti? Il metodo di Sabel si è basato su due indicatori che hanno la funzione di campanelli d’allarme: il fatto che gli autori utilizzino indirizzi e-mail privati e non istituzionali, e che indichino l’affiliazione con un ospedale. Il criterio adottato non è perfetto perché implica un alto tasso di falsi positivi, ma è la conferma di ciò che si sospettava: le riviste sono inondate da una marea di manoscritti provenienti dai “paper mills” (letteralmente, “cartiere”). Queste aziende producono sistematicamente manoscritti fake, spesso plagiati o scritti con sistemi automatici, che vengono poi venduti ai ricercatori, i quali li propongono alle riviste scientifiche spacciandoli come propri, allo scopo di raggiungere velocemente i requisiti minimi per gli avanzamenti di carriera. Altra attività che gestiscono è la compravendita della authorship, per cui l’articolo potrebbe essere “vero”, ma l’elenco degli autori viene gonfiato con i nomi di chi non vi ha realmente contribuito. Un fenomeno preoccupante, in particolare in Russia, Turchia e Cina, dove quasi la metà delle pubblicazioni potrebbero essere false. Non va molto meglio in Egitto, India, Brasile e Taiwan, che si trovano nel range fra il 20 e il 40%. Decisamente più affidabili i paper in Giappone, Europa, Canada, Australia, Stati Uniti e Ucraina, tutti nella fascia fra il 3,1 e il 5,8%. Se guardiamo invece ai Paesi produttori di “pubblicazioni-spazzatura”, è la Cina a farla da padrona, con il 55,8% del totale globale. Gli editori stanno correndo ai ripari, ma tutto fa pensare che, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, questa minaccia alla correttezza della letteratura scientifica non potrà che espandersi.
La bufala più famosa: il caso Wakefield. Negli ultimi cinquant’anni, in Italia, è accaduto ben tre volte che la sperimentazione di un farmaco non venisse avviata secondo criteri scientifici, ma solo per assecondare le pressioni dell’opinione pubblica. Tutti ricordiamo il caso Stamina (2013) e le vicende del metodo Di Bella (1998) e del siero Bonifacio (1970). Ma a livello internazionale la bufala più nota è quella sul presunto legame fra vaccini e autismo, conosciuta come “caso Wakefield” e responsabile della diffidenza che molti nutrono tuttora nei confronti dei vaccini, da quelli obbligatori fino a quelli sviluppati più recentemente per contrastare il COVID-19. Nel 1998 il medico inglese Andrew Wakefield pubblicò un articolo sulla rivista The Lancet, in cui evidenziava una correlazione fra il vaccino trivalente per morbillo, parotite e rosolia e i disturbi dello spettro autistico: ciò provocò un drastico calo delle vaccinazioni in Gran Bretagna e Irlanda e una conseguente epidemia di morbillo. Poi, anni dopo, una lunga inchiesta giornalistica rivelò che Wakefield aveva falsificato i dati per un tornaconto personale; la rivista ritirò il suo studio e lui fu radiato dall’Ordine dei Medici.